Isaac Julien
La sfida è tradurre una visione politica in un lavoro poetico.
È quanto cerca di fare Isaac Julien (1960) ricorrendo a opere filmiche e videografiche che intrecciano il linguaggio del documentario con l’arte per ottenere una lettura della realtà che si è venuta a creare in una situazione postcoloniale.
La tragedia degli emigranti africani e cinesi che, su barconi o mezzi i fortuna, abbandonano i loro paesi alla ricerca di una vita migliore, arrivando a morire per questo sogno.
Sono questi i soggetti, insieme alle donne e ai bambini sfruttati nei paesi più avanzati, che l’artista traduce in immagini proiettate su più schermi, così da creare un involucro narrativo in cui il visitatore è immerso, diventando testimone e partecipe, e nel contempo responsabile.
Sono racconti cinematografici (al Museum of Modern Art di New York, fino al 17 febbraio) che ri-attualizzano materiale d’archivio, ripreso da programmi televisivi e da registrazioni aeree, in cui sono documentati gli sbarchi e gli annegamenti, da Lampedusa a Morecambe Bay.
Un prodotto dello sfruttamento globale che Julien tramuta in mito e leggenda, mescolando letteratura, musica, poesia al fine di sollevare domande sul desiderio umano di un vivere che non sia fame e miseria.
È un fare arte connesso alla memoria delle spedizioni verso un nuovo eldorado, ma è pure una dolorosa testimonianza del viaggio maledetto di migliaia di clandestini che si avventurano verso l’ignoto e vi trovano la morte.
A volte, il sacrificio territoriale è percepibile nei gesti meccanici e rassegnati di una cameriera di colore in un lussuoso appartamento, collocato in un grattacielo: un luogo senza colore e senza vita, metafora di una solitudine e di una perdita d’identità etnica dove il privilegio sa di morte.