I fatti si prestano a una duplice lettura dalle opposte conclusioni, sostenute l'una in contraddizione con l'altra dallo scrittore Sergio Saviane e in tempi assai più recenti dal giornalista Pietro Ruo.
La serie di decessi cominciò nel 1933 quando, il 9 maggio, in una stanza dell'Albergo Centrale di Alleghe, la numero 6, quella dove viveva il padrone dell'albergo, Fiore Da Tos, fu trovato il corpo senza vita della giovane Emma De Ventura, che vi lavorava come cameriera.
La morte della donna fu archiviata come suicidio, né la polizia ebbe dubbi sull'accaduto.
Eppure a ucciderla era stato un colpo di rasoio che l'aveva sgozzata, e l'arma fu trovata chiusa in un armadio. Anche supponendo che qualcuno avesse poi riposto la lama, era un modo ben strano per togliersi la vita, e quasi impossibile da compiersi da soli.
Mancava, infine, una spiegazione di quel gesto, che si credette di trovare in una lettera scritta dalla De Ventura dal contenuto sibillino.
Emma De Ventura
Appena sette mesi dopo, all'alba del 4 dicembre 1933, nelle acque ghiacciate del lago di Alleghe, a pochi passi dall'albergo, fu rinvenuto il cadavere di Carolina Finazzer, la moglie di Aldo Da Tos, uno dei figli del proprietario del "Centrale" (gli altri erano le sorelle maggiori di Aldo: Irma, Rosalia e Adelina).
Anche per spiegare questa morte si pensò alla volontà della vittima di togliersi la vita, senza che la sinistra concomitanza di eventi, capitati nello stesso anno, destasse qualche sospetto.
Nella morte della Finazzer, poi, vi erano diversi elementi sconcertanti.
La donna si era sposata con Aldo appena otto giorni prima. Il loro viaggio di nozze, che sarebbe dovuto durare alcune settimane, si era interrotto anzitempo: i due sposini erano rientrati ad Alleghe il 3 dicembre, il giorno precedente quello del ritrovamento del cadavere di Carolina.
Il corpo non aveva acqua nello stomaco: dunque la donna non era annegata, ma era già morta prima di finire nel lago. Com'era morta? E chi ve l'aveva gettata?
Come se non bastasse, Aldo Da Tos, che aveva allora 24 anni essendo nato nel 1909, era il macellaio del paese, dove aveva un negozio.
La sua familiarità con i coltelli doveva suscitare qualche sospetto in merito alla fine di Emma De Ventura, così vicina a quella della Finazzer per circostanze di tempo, di luogo e di rapporti personali. Invece, niente.
I Da Tos erano una famiglia potente e in vista, che poteva contare su appoggi politici e sulle ricchezze guadagnate attraverso il matrimonio tra il capostipite e Elvira Riva: Fiore Da Tos era uno spiantato, ma nel 1905 aveva sposato la Riva, molto più anziana di lui, «soltanto per impadronirsi dei suoi beni», fra i quali figurava proprio l'Albergo Centrale.
L'Hotel Centrale
di Alleghe
Nessuno osò ficcare il naso nelle faccende dei Da Tos, i quali potevano contare anche sulla naturale riservatezza della gente di montagna.
Ma in paese si diffuse il terrore per quelle morti così strane e senza un colpevole, alle quali nello stesso periodo se ne aggiunsero altre due, vittime il calzolaio Paolino Da Riva, conosciuto come "il Gobbo", e il giovane Guido Gardenal, che lavorava come garzone proprio nella macelleria di Aldo Da Tos e che era stato colpito a morte dal calcio di un toro condotto nel macello.
Il terrore divenne tale che alcuni abitanti preferirono lasciare Alleghe per andare a vivere altrove.
Passati alcuni anni, il paese ampezzano divenne ancora una volta teatro di eventi luttuosi.
Stavolta toccò ai coniugi Luigi Del Monego e Luigia De Toni seguire il destino della De Ventura e della Finazzer.
I due, detti "Gigio" e "Gigia", erano ben noti a tutti in paese dal momento che erano stati i fornai della comunità e gestivano lo spaccio dell'Enal.
La mattina del 18 novembre 1946 furono trovati uccisi a colpi di rivoltella calibro 9 accanto alla porta della loro casa, in vicolo La Voi, vicino ad un orinatoio nel quale le lampadine erano state rotte.
Seppure consumato nel pieno centro del paese, nessuno aveva assistito al delitto, né aveva fatto caso agli spari, confusi con dei mortaretti.
L'assassino aveva pure rapinato i Del Monego dell'incasso della giornata allo spaccio Enal e dei pochi gioielli della donna.
I morti erano ormai diventati troppi per concludere che potesse trattarsi di coincidenze, per quanto eccezionali. Eppure la morte dei due ex fornai sembrava da ricondursi a cause ben diverse dalle altre: Gigio e Gigia Del Monego erano stati uccisi - almeno su questo, stavolta, non c'erano dubbi - a scopo di rapina.
Alleghe
Del duplice omicidio fu accusato un operaio 37enne di Cortina d'Ampezzo, Luigi Verocai, che venne poi assolto con la formula più ampia dalla Corte d'Appello di Venezia; prima di lui un'altra falsa pista aveva portato a Michele Fontanive, un alleghese disoccupato.
Anche la morte dei Del Monego restava così impunita.
A nutrire i primi sospetti su quale potesse essere la verità, almeno limitatamente alle morti avvenute all'Albergo Centrale, fu un giornalista destinato a riscuotere un certo successo con i suoi articoli è poi con i suoi libri, Sergio Saviane, che nel 1952 attraverso una inchiesta giornalistica sollevò il velo, su quanto stava davvero succedendo, da anni, in quell'albergo di Alleghe.
Dapprima sul periodico «Il lavoro illustrato» e poi nel libro I misteri di Alleghe, che sviluppò l'inchiesta e divenne un vero e proprio best seller, Saviane affermò per primo che le morti del "Centrale" non erano dovute a suicidi, ma erano state tutte omicidi ben camuffati.
Di essi accusò i fratelli Da Tos in concorso con altre persone.
In un primo tempo toccò a Saviane rispondere delle sue accuse in un'aula di tribunale, dal momento che le persone indicate come colpevoli nei suoi articoli gli fecero causa.
L'autore fu condannato a otto mesi di carcere e a 700.000 lire per i danni morali arrecati ai Da Tos, ma non per questo si rassegnò a tacere su quella che era, a suo dire, la verità.
E alcuni anni dopo, nel 1958, ottenne di far riaprire le indagini ai carabinieri.
Stavolta la verità venne a galla: la stessa verità descritta nei Misteri di Alleghe.
Dalla ricostruzione letteraria i fatti tornarono in un'aula di giustizia per essere letti nella loro autentica luce.
Nella sua versione, Saviane partì da un quinto delitto, che si aggiungeva a quelli citati ed era in realtà all'origine di tutti gli altri. Elvira Riva, la moglie di Fiore Da Tos, aveva avuto un figlio illegittimo, Umberto Giovanni.
La donna lo aveva in grembo quando il capofamiglia dei Da Tos la sposò.
Un giorno Umberto, che era nato a Mirano, lontano quindi da Alleghe, ed era stato «in seguito affidato ad un'amica di Venezia con l'incarico di farlo crescere» a spese della Riva, si era recato ad Alleghe per reclamare la sua parte di eredità, ma i fratellastri si erano opposti con violenza.
E pur di non spartire i loro beni con quell'inatteso e sgradito nuovo arrivato, decisero di toglierlo di mezzo, sicuri che nessuno sarebbe mai venuto a conoscenza di nulla.
Il caso invece avrebbe voluto che la cameriera Emma De Ventura scoprisse il cadavere di Umberto nella cantina dell'albergo, firmando però nel contempo la propria condanna a morte.
Per nascondere il loro terribile segreto, i Da Tos infatti decisero di eliminare anche lei.
Identica sorte toccò in seguito alla moglie di Aldo, Carolina Finazzer, con la quale l'uomo si era probabilmente confidato, rivelandole cos'era davvero successo a Emma, e ai coniugi Del Monego: tutti e tre pagarono con la vita il fatto di essere venuti a sapere fatti compromettenti la presunta innocenza dei proprietari dell'albergo.
La sposina di Aldo Da Tos, sconvolta dalle rivelazioni del marito sulla morte della cameriera, avrebbe voluto parlarne alla madre, che cercò al telefono poche ore prima di morire strangolata; quanto ai due coniugi, avevano sentito (e forse visto) l'assassino portare via il corpo della Finazzer la mattina del 4 dicembre per gettarlo nel lago. A detta di Saviane, «i delitti venivano organizzati collettivamente in riunioni presiedute da Fiore, attorno alla tavola della cucina e del tinello... Ad ognuno veniva distribuita una parte».
La Corte d'Assise di Belluno, nel corso del famoso processo che nel 1960 chiamò alla sbarra Aldo e Adelina Da Tos, non condivise fino all'ultimo dettaglio la versione di Saviane, ma nella sostanza di alcuni fatti, almeno quelli più recenti, sì. Secondo i giudici, il movente dell'uccisione di Emma De Ventura andava ricercato nella gelosia che nutriva Adelina nei suoi confronti. La Finazzer, poi, era caduta vittima del marito e della stessa donna, spalleggiati da un terzo complice, Pietro De Biasio, marito di Adelina, allo scopo di assicurarsi l'impunità del delitto precedente.
Tredici anni dopo, nel 1946, Aldo Da Tos aveva eliminato Luigi e Luigia Del Monego perché sapevano troppe cose, simulando una rapina. L'agguato era stato accuratamente preparato, rompendo le luci dell'orinatoio così da permettere all'assassino di sorprendere la coppia sotto casa, nell'oscurità.
In questa circostanza Da Tos poté contare sull'aiuto di tal "Bepin Boa", alias Giuseppe Gasperin, un giovane (era nato nel 1926) ex partigiano che conduceva una vita da sbandato: senza lavoro e dedito all'alcol, Gasperin si faceva mantenere dalla madre e dalla moglie, dalla quale aveva avuto due figli. Caduto in prescrizione il primo omicidio, quello della cameriera, la corte presieduta dal giudice Mario Alborghetti fu chiamata a giudicare sugli altri tre delitti.
L'8 giugno 1960, al termine di un processo che era durato sei mesi e aveva richiesto 33 udienze, destando enorme clamore, il destino dei fratelli Da Tos fu affidato a 279 fitte cartelle dattiloscritte, nell'affollato Auditorium di Belluno. I poco più che cinquantenni Adelina e Aldo, ormai noti insieme a Pietro De Biasio come "il clan del Centrale", furono riconosciuti colpevoli e condannati all'ergastolo: Aldo e il cognato per la morte di Carolina Finazzer e dei coniugi Del Monego, Adelina per l'omicidio della Finazzer. Su Pietro De Biasio, Saviane riporta un dettaglio inquietante: nel 1927 aveva sparato a una donna, Ines Dal Pian, mentre erano in barca sul lago «perché non s'era voluta fidanzare con lui».
Se fossero stati scoperti all'epoca dei primi delitti, i tre sarebbero stati condannati a morte; invece toccò loro la pena dell'oggi, domani e sempre, com'è definita la condanna a vita nel gergo carcerario.
Per l'assassinio di Luigi e Luigia Del Monego fu condannato anche Giuseppe Gasperin, ma non all'ergastolo bensì a trent'anni di reclusione (di cui sei condonati) in virtù del fatto che l'ex partigiano era l'unico ad aver confessato e aveva collaborato alle indagini contribuendo a incastrare i Da Tos.
Il collegio giudicante non aveva dunque dato retta alle tesi innocentiste di don Angelo Strim, parroco di Alleghe, che riteneva gli imputati incapaci di tante efferatezze, né a quelle del medico condotto del paese, Giovanni Case, il quale ripeté davanti ai giudici bellunesi le conclusioni delle perizie da lui eseguite a suo tempo sui cadaveri di Emma De Ventura e di Carolina Finazzer, perizie che propendevano per il suicidio e non l'omicidio delle due donne.
Le stesse tesi innocentiste furono riprese nei suoi articoli da Tina Merlin, la nota giornalista del disastro del Vajont.
Due anni dopo, a Venezia, si svolse il processo d'appello e il 4 febbraio 1964 la Corte di Cassazione, respingendo i ricorsi proposti dai condannati, confermò la sentenza di primo grado.
Dopo Gasperin, anche i fratelli Da Tos avevano confessato di aver partecipato all'uccisione della De Ventura e della Finazzer. Per i membri del "clan" aveva così inizio un lungo periodo di detenzione.
Adelina Da Tos, ormai 73enne, ottenne la grazia dal presidente della Repubblica Sandro Pettini all'inizio del 1981. Lasciando il penitenziario femminile di Perugia, la donna disse che sarebbe andata ad abitare da una parente a Pavia.
Poco tempo fa un altro libro, dopo I misteri di Alleghe, si è spinto a sondare i retroscena delle morti avvenute all'Albergo Centrale, giungendo però a conclusioni ben diverse da quelle di Saviane.
Ne I segreti del lago (Treviso 2001) Pietro Ruo ritiene che manchino validi' moventi per incolpare i Da Tos.
Anche l'analisi del presunto omicidio di Emma De Ventura, contenuta nella sentenza della Corte di Assise bellunese, presenterebbe a suo dire parecchie contraddizioni. In base a questa lettura, l'intero dibattimento sembra muovere dall'intenzione di incastrare gli imputati, ritenuti colpevoli a prescindere.
Ruo si concentra a lungo sulla figura della De Ventura, ridando peso all'ipotesi del suicidio sostenuta con decisione da don Angelo Strim e dal dottor Case.
Ma l'asso nella manica de I segreti del lago è un altro elemento, tale da gettare nuova luce sull'intera vicenda: l'esistenza in vita fino a poco tempo prima proprio di Umberto, il probabile figlio naturale della famiglia Da Tos.
Se Umberto non era mai stato ucciso, tanto da invecchiare nel Veneziano, Emma De Ventura a sua volta non poteva essere stata uccisa per aver visto un cadavere che non esisteva.
Piuttosto, la cameriera dell'albergo poteva davvero essersi tolta la vita di propria volontà.
In questo caso, l'intero castello accusatorio a carico dei Da Tos e di De Biasio verrebbe a cadere, dal momento che tutte le morti successive erano state spiegate con la necessità degli assassini di coprire le proprie responsabilità.
Chi ha ragione, Sergio Saviane o Pietro Ruo?
Ad alcuni decenni di distanza, l'unica risposta ufficiale è quella data dalla Corte di Assise di Belluno e ribadita in via definitiva dalla Cassazione.
Ma rimane il dubbio, più che fondato, che probabilmente non tutti i condannati all'ergastolo fossero colpevoli, o almeno non nella stessa misura.